Questo articolo è stato pubblicato, in versione leggermente ridotta, su La Verità di venerdì 7
febbraio.
Come molti, cerco anch’io di tenermi informato sull’evolversi dell’epidemia di Coronavirus 2019-nCoV, sulle probabilità di contrarlo e sulla sua gravità. Ma non è facile. Mentre mi districo tra gli aggiornamenti e le raccomandazioni delle autorità sanitarie, il seme del microbo ha attecchito sul terreno di un’opinione pubblica affamata di simboli e di ossessioni e da lì ha generato una foresta narrativa che nulla dice degli eventuali pericoli della malattia, moltissimo di quelli di una società imprigionata nelle trame immateriali dello «spettacolo» (Guy Débord).
I primi a muoversi sono stati gli alfieri delle vaccinazioni obbligatorie. Ancora non esiste un vaccino per difendersi dal Coronavirus cinese quindi (!), spiegava il nostro rappresentante OMS ai microfoni di Radio Radicale, «il rimedio principale è il vaccino contro l’influenza» e «a maggior ragione» contro la polmonite, cioè contro altre malattie. Massì. Se ci duole un dente fasciamoci un piede, che male non fa. Del resto, ha poi aggiunto, «noi siamo un paese vulnerabilissimo. Dal ’99, quando il Parlamento ha sospeso o attenuato l’obbligo di vaccinazione per entrare nelle scuole, ci sono decine di migliaia di giovani… non vaccinati. Queste sono vittime predestinate». Mentre cerchiamo di capire che ci azzecca con l’epidemia cinese, facciamo timidamente notare che dal 1999 al 2017 (quando fu rintrodotto l’obbligo) il tasso di adesione alla vaccinazione anti-polio-tetano-difterite è invece rimasto invariato, mentre quello all’anti-morbillosa è addirittura cresciuto di venti punti percentuali. Mais passons. Altri hanno fatto il salto ancora più lungo, brandendo il vaccino immaginario per annichilire i propri nemici: immaginari. «Desidererei,» scrive un noto virologo su Twitter, «che si trovasse immediatamente un vaccino contro il coronavirus [anche] per il piacere di vedere gli antivaccinisti implorare la vaccinazione in ginocchio sui ceci». Il riferimento di questo tecnico e olimpico auspicio è con tutta evidenza il fiabesco sottogruppo di coloro che rifuggirebbero qualsiasi vaccino siccome l'aglio i vampiri, non chi vorrebbe solo scegliere se e quali farne, o magari più semplicemente discuterne col proprio medico senza fargli rischiare la radiazione e la gogna. Giacché questo secondo gruppo ha il difetto di esistere, mal si presterebbe al copione.
Ci sono poi quelli asserragliati nel fortino dell’amore, i sempre-buoni che lottano contro il Paese
incattivito e crudele. Ecco il sindaco di Firenze apparire in video
con un signore dai tratti orientali per denunciare «lo sciacallaggio che alcuni fanno per trovare soltanto
una scusa per l’odio e l’esclusione». Il virus è solo «una scusa», l’hashtag #AbbracciaUnCinese (sul serio).
Ecco ogni aggressione o ipotesi di aggressione a persone con gli occhi a mandorla diventare un’«emergenza
sinofobia», il sintomo di una «psicosi razzista» che va espiata in pubblico con apposite mangiate
riparatrici di involtini primavera, a favor di Instagram sotto l'immancabile
hashtag. Ed ecco i cronisti a caccia di mamme preoccupate dal rientro in
classe di un compagnuccio dalla Cina. «C’è il rischio di una caccia all’untore», ammoniscono gli stessi che
chiamano migliaia di bimbi sani «piccoli untori» e gioiscono se li si caccia a pedate dagli asili. Secondo
l’OMS è possibile che il virus si trasmetta anche da ospiti asintomatici, ma Alberto Villani (SIP), lo
stesso a cui «ha fatto molto piacere» che il trascorso governo abbia
confermato il divieto di
frequenza scolastica per chi non si vaccina contro malattie scomparse da decenni nel nostro Paese o per le
quali non è in corso alcuna epidemia, ci informa oggi dalle pagine del
Corriere che se invece incombe un’epidemia allora è ingiusto e «non ha senso» imporre una breve
quarantena agli alunni provenienti dalle zone dove infuria. Perché, adesso sì, il rischio è solo «teorico» e
comunque «se esiste è altamente improbabile». Sullo stesso spartito canta l'UNICEF. Nel 2018 il portavoce per l'Italia esprimeva «apprezzamento per il superamento della
[sospensione del]l’obbligo vaccinale come requisito per l’iscrizione e la frequenza scolastica» e lanciava
un appello affinché la «tutela della salute dei bambini – in particolare i più vulnerabili – non sia
demandata al senso di responsabilità dei singoli cittadini» Oggi, non essendoci di mezzo le punture,
scopriamo invece che bisogna «dire no a qualsiasi pregiudizio e discriminazione» perché «nessun bambino è un
virus». E «i più vulnerabili»? Qui non servono, quindi restano in panchina.
Per l’eurodeputata
Alessandra Moretti, «se ogni Stato rimane sovrano, limita l’autorevolezza dell’Europa a essere
rilevante anche per questi casi». Si chiede perciò se «saremo capaci di rinunciare… a un pezzo di sovranità
anche per quanto riguarda la salute e la sicurezza sanitaria… per diffondere un sistema di tutela europeo».
Chiaro: se la malattia vola sulle ali del globalismo, ci vuole più globalismo. Non manca, né può mancare,
«il clima», che sta oggigiorno alle cronache come il curry alla cucina indiana: «L’epidemia da coronavirus
in atto», scrive un medico sul Fatto Quotidiano, «rientra tra le
conseguenze del
cambiamento climatico in atto». Chi lo ha detto? Al Gore, sicché. Per chiudere il cerchio un lettore mi
scrive preoccupato: «Ma il contante? Possibile che nessuno abbia ancora detto che veicola i virus?». No, ma
siamo fiduciosi. Nel frattempo arriva una buona notizia, che in un istituto di Roma si sarebbe isolato il
genoma del virus. Che cosa è emerso? Quali sono i risvolti pratici della scoperta? Non si capisce, non si
sa, perché il vero scoop è ben altro: che la squadra di ricerca sarebbe composta
da sole donne, pare addirittura «meridionali». A parte il
chissenefrega, sentirlo annunciare come un fatto straordinario dai difensori della parità di genere fa
sempre un certo effetto.
Più di un commentatore ha lamentato la troppa politicizzazione della vicenda, ma francamente mi sembra un understatement. Ciò che vedo è piuttosto un evitamento sistematico e centrifugo dell’oggetto, l’incapacità di considerare il suo dato e la compulsione di digerirlo in una griglia immateriale di desideri, rappresentazioni e ossessioni per deformarlo fino a renderlo irriconoscibile e inerte, prostituibile alla qualsiasi. Vedo un teatro senza finestre sulla realtà, dove della realtà entrano solo poche ombre per farsi pretesto di un copione già scritto. Come a teatro, tutto diventa appunto spettacolo con i riti collettivi clowneschi sui social, le formule ripetute in coro, i battimano a comando, le star da acclamare, i figuranti e l’azione che converge sul finale escogitato dagli autori e atteso dal pubblico, tra peripezie libere di svilupparsi senza vincoli di verosimiglianza, raziocinio e coerenza.
In questo teatro o circo ci si diverte e ci si rassicura a vicenda, si gode nell’assistere all’elegante farsi dei propri sogni sul palco. Resta però il problema della finzione che, per quanto collettiva e ripetuta, non può incidere sulla realtà a cui così liberamente si ispira. Non so quanto sia grave l’epidemia di Coronavirus, ma il fatto di non riuscire a focalizzarla nella sua sostanza tutto sommato banale segnala un problema che supera per gravità ogni eventuale emergenza sanitaria: quello di una civiltà accecata dalle proprie consolanti finzioni e sprezzantemente ignara di tutto ciò non le avvera. E perciò destinata a subirlo.
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